Vini da uve Piwi, viaggio nel Trentino che verrà (?)
“Non posso più andare al bar del paese, perché mi dicono che ho un nipote scemo”. Gianni, classe 1919, ha attraversato la crisi del ’29, un conflitto mondiale, la Guerra Fredda, il boom economico, gli anni di piombo e un’altra decina di cambiamenti epocali allevando bestiame ai piedi dell’Adamello tra aria pulita, lavoro duro e poche certezze granitiche. Una di queste è che la sua terra non è terra da viticoltura. Sentirsi dire dal nipote, all’età di 90 anni, che nella sua azienda saranno piantati filari di vite gli ha provocato lo stesso effetto di quando, quarant’anni prima, in quello stesso bar di paese ha visto alla tv Neil Armstrong camminare sulla Luna. Setta anni più tardi, con 97 primavere sulle spalle, Gianni può continuare a ordinare e bere caffè o cappuccino con gli amici del bar a testa alta, perché quell’idea apparentemente balzana del nipote Nicola si è rivelata un piccolo successo. Merito dei vitigni Piwi, varietà resistenti che nascono da incroci di uve effettuate direttamente in pianta e permettono – tra i vari effetti – di diffondere la vite in scenari altrimenti inavvicinabili.
Ma andiamo per ordine. Il racconto qui sopra – leggermente riadattato, lo confesso – è di Nicola Dal Monte, coordinatore Piwi International per il Trentino e viticoltore dell’azienda agricola Filanda De Boron (Tione di Trento, Parco dell’Adamello), che incontrato giovedì 10 novembre all’hotel Andreola di Milano alla serata sui vitigni Piwi del Trentino organizzata da Fisar Milano insieme a Skywine e Città del Vino Trentino Alto Adige. In quell’occasione è stata presentata la storia dei vitigni Piwi (acronimo di Pilwilderstandfähig, termine tedesco che significa “resistente ai funghi e alle malattie crittogamiche”), nati nei paesi germanici (Germania e poi Austria e Svizzera) come risposta alla fillossera, parassita che alla fine dell’Ottocento distrusse grandissima parte del vitigno europeo. Se allora la soluzione principale all’attacco del parassita fu infatti quella di innestare la vite europea su piede americano (resistente alla fillossera), a Friburgo ci fu chi intraprese un’altra via, iniziando a incrociare tra loro diverse varietà (tramite impollinazione in vigneto) per dare vita a uve in grado di difendersi da sole. La resistenza a iodio e peronospora fu raggiunta molto velocemente, la via per arrivare a vitigni in grado di dare risultati qualitativamente buoni, eccellenti in alcuni casi, è stata invece un po’ più lunga, ma altrettanto vincente. Oggi tra le varietà Piwi più diffuse ci sono uve con nomi esotici come Bronner, Johanniter, Prior, Solaris, Cabernet Cortis, Muscaris e Gamaret… in tutto nel Registro nazionale delle varietà delle viti se ne contano 19: 10 a bacca bianca e 9 a bacca nera.
Nel 2000 è nata l’Associazione Piwi International, che riunisce i viticoltori impegnati nell’allevamento di queste varietà (350 membri da 17 Paesi europei e nordamericani). In Italia il pioniere è stato Rudi Niedermayr di Maso Gandberg (Appiano sulla Strada del Vino, in provincia di Bolzano), piccola azienda agricola che oggi porta il nome del figlio Thomas Niedermayr, che con grande passione e impegno sta proseguendo la strada del padre. Ma vitigni Piwi si trovano al momento anche in Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Lombardia. Il processo per l’affermazione di viti resistenti è lungo e impegnativo: tra incroci in pianta, selezioni, impianti, prove di esposizioni ai funghi, riproduzione, iscrizione al registro delle viti e commercializzazione per i primi vitigni sono serviti quasi 40 anni. Oggi alcuni di questi rientrano in qualche denominazione (Igt), il prossimo obiettivo è l’introduzione nelle Doc e Docg, cosa attualmente impossibile essendo queste denominazioni legate alla Vitis vinifera.
Quali sono i benefici della viticoltura con vitigni Piwi? Prima di tutto queste varietà resistenti non richiedono trattamenti chimici con conseguenti benefici in termini ambientali per tutti ed economici per gli agricoltori. In annate climaticamente molto favorevoli, come la 2015, chi scrive ha potuto verificare in un vigneto coltivato con queste varietà l’assenza totale di trattamenti, compresi quelli consentiti dall’agricoltura biologica (rame e zolfo). L’uva è cresciuta sana e si è difesa da sola. I vitigni Piwi permettono poi l’introduzione della viticoltura in ambienti dove le condizioni climatiche o di pendenza la rendevano fino a oggi impraticabile. Inoltre il numero limitato di trattamenti in campagna riduce anche quello degli infortuni sul lavoro, che in alcune zone d’Italia, proprio a causa della loro conformità, sono ancora assurdamente troppo frequenti.
Durante la serata abbiamo assaggiato dieci vini. Siamo partiti dallo Spumante Charmat Santacolomba (Johanniter) della Cantina sociale di Trento, piacevolissima bollicina di grande freschezza in cui predominano le note citrine, per poi passare allo Spumante Lauro di Filanda del Boron (Solaris), uno charmat corto stile frizzantino anni ’70 e profumi che spaziano dal mughetto al fico d’India con note vegetali sempre presenti (e un residuo zuccherino di 15 g/l). La terza bottiglia è stata il Frizzante col fondo Zero Infinito (Solaris) di Pojer e Sandri nella versione “agitare prima dell’uso”, che regala in apertura profumi da Orangina per poi aprirsi con note di frutta tropicale, pesca e succo di pompelmo; un vino da masticare e lievemente astringente con un nome che è tutto un programma, richiamando all’assenza in bottiglia di ciò che non è uva. Il quarto vino è stato l’Aromatta 2015 (Aromera) di Villa Persani, dove predomina la mineralità accanto a note di pompelmo e rosa bianca.
Dallo stesso vitigno arriva il Gabrjol 2015 di Albino Martinelli, con una decisa verve aromatica e note dolci di miele, confetto e buccia di mandarino. La sesta bottiglia è stata il Santacolomba 2015 (Solaris, Bronner) della Cantina sociale di Trento, piacevole alternativa ai bianchi regionali al momento dell’aperitivo. Un Bronner in purezza è invece il Piwi 2015 della Cantina di Merano Burggräfler: naso ampio e piacevole dove spicca la dolcezza del frutto, buona freschezza e grande morbidezza in bocca. L’ottavo vino è stato un’anteprima, un campione di botte: la Cuvée 2016 di Tenuta Dornach (Patrick Uccelli), un mix di Solaris, Bronner, Souvignier Gris, Pinot bianco e Incrocio Manzoni. In un vino ovviamente ancora non pronto, spettinato e con un naso in evoluzione, è già apprezzabile in bocca una polpa piena. Il Goldraut Sauvignier Gris 2015 di Zollweghof, maturato in parte in anfora e in parte in legno di acacia, dopo un’impennata di note verdi in apertura si apre con agrumi dolci e propone una nota alcolica importante. Ultimo servito è stato l’orange wine Victoriae (Igt Vallagarina) di Cantina Mori Colli Zugna, composto da un mix di Bronner e Chardonnay: nonostante il legno abbia ancora una presenza invasiva, colpisce per le note balsamiche e di resina.